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venerdì 6 dicembre 2013

Mandela e dintorni



Mandela ci ha lasciato, ieri. E tutto il mondo, più o meno all'unanimità, ha accolto la notizia con profonda tristezza e commozione.

Ma accanto a questi due sentimenti, se ne aggiunge un altro: lo stupore. Perché si rimane stupiti (a dir poco) nel vedere per che cosa viene ricordato Nelson (a giudicare dai siti di informazione e da alcune delle migliori menti - italiane e non).

Il Giornale.it riferisce di un figlio che nessuno sapeva che Mandela avesse. Almeno poi arrivano le scuse

Poi c'è lei, (in compagnia). Che dire...Riposa in pace Morgan Freeman



E chiudiamo con Paris. L'ereditiera più famosa del mondo che ha ereditato tutto, ma proprio tutto, tranne un cervello














giovedì 5 dicembre 2013

Uguaglianza al quadrato

Entusiasmo alle stelle tra gli alfaniani per il nuovo simbolo del NCD. Il vice premier dice di aver scelto il quadrato in quanto richiamo "di merito e uguaglianza". Ma qualcuno fa notare che richiama anche qualcos'altro...

mercoledì 27 novembre 2013

Rapina a mano a mano

























Tempi duri, anche per i rapinatori. Non tutti possono permettersi una pistola, un coltello, un'arma qualsiasi.
E allora? Ci si reinventa.
Me la immagino la banda: uno che tiene il benzinaio per un braccio, uno in macchina a motore acceso, uno che fa il palo e l'ultimo che morde.

giovedì 21 novembre 2013

Le grandi inchieste del Corriere















Ecco l'articolo pubblicato in home page dal Corriere.it, cronaca di Milano. L'unica nota positiva è che il 57% dei lettori è indignato, si spera per la scelta della notizia.

martedì 19 novembre 2013

Sono figo e lo dimostro















La Stampa si bea del "prestigiosissimo" European Newspaper Award, ovviamente non pervenuto su nessun altro quotidiano italiano.

venerdì 8 novembre 2013

Per un pugno di copie (digitali)




Che soddisfazione deve essere per Il Sole 24 Ore, confermarsi il primo quotidiano digitale. Lo leggo sul Sole. Ma, aspetta, sul Corriere c'è scritto che è proprio il Corriere ad essere il giornale più venduto, sia su carta che online. E Repubblica? Anche a settembre prima nelle vendite! Chi lo dice? Repubblica, ovviamente. Ma la fonte qual è? I dati Ads.
Perché risultati così diversi? Che domande, vanno interpretati....

mercoledì 30 ottobre 2013

La lettera a Letta

Sembra uno scioglilingua, ed infatti c'è chi è incappato nell'errore. Su Libero, ecco che il Presidente del Consiglio Enrico Letta diventa (per un giorno) Enrico Lettera. Di dimissioni?


mercoledì 23 ottobre 2013

"I ham", ovvero quando le polemiche offuscano un claim geniale

Certo, i media online amplificano un po' la notizia, definendola "manifesto choc" ed in effetti del cattivo gusto c'è, ma si è visto di peggio. Parlo della pubblicità che sta suscitando polemiche a Capri che ritrae un corpo femminile disteso a pancia in giù con due fette di prosciutto sul sedere. Mercificazione del corpo femminile si dirà, ed è senz'altro vero.

Lo spot allunga la scia di analoghi ed infelici precedenti: ricordo di quando a Napoli, nello scorso marzo, apparvero cartelloni raffiguranti una donna distesa sul letto, apparentemente senza vita, per pubblicizzare una marca di strofinacci per la casa .

Ma mentre ormai monta la protesta, soprattutto in rete, e si rimarca il fatto che il Comune di Capri non abbia un assessorato alla Pari Opportunità, mi vorrei soffermare sul claim che accompagna lo spot: "I ham", geniale per promuovere una marca di prosciutti.

Senz'altro più efficace se al posto del sedere ci fosse stato un viso che addenta soddisfatto una fetta di prosciutto, ma non si può azzeccare sempre tutto.

sabato 19 ottobre 2013

Quel difficile mestiere del titolista

...che poi in fondo, se fosse vero, sarebbe senza dubbio un titolo da prima pagina 

martedì 15 ottobre 2013

Pubblicità in TV, lo spread con il quale le aziende fanno i conti

In tempi di crisi, non tutte le aziende possono permettersi di acquistare spazi pubblicitari, specialmente sul mezzo che raggiunge più facilmente e in maniera immediata la fascia più larga di persone: la TV. Potremmo chiamarlo “spread” o “digital divide”, ma la sostanza non cambia: c’è chi può e chi non può. O chi può un po’ meno. Recentemente, il quotidiano Italia Oggi ha pubblicato  listini commerciali delle principali concessionarie del mercato della pubblicità televisiva italiana, da Rai Pubblicità (ex Sipra) a Publitalia (Mediaset), a Sky Pubblicità sino a Cairo Communication.

Secondo l’articolo lo spot più costoso è il nuovo format All21 creato da Mediaset per la prossima stagione: dal 23 settembre alle ore 21 andranno in onda in contemporanea su Canale 5, Italia 1, Rete 4, La5, Mediaset extra, Iris e Top Crime 30 secondi di pubblicità a reti unificate per la modica cifra tra i 164 e i 170 mila euro. Pianificare pubblicità nello show di Gianni Morandi, su Canale 5, comporterà, invece, un investimento di oltre 110 mila euro a spot. E pure Ballando, su Rai 1, avrà tariffe piuttosto importanti, con 92 mila euro per 30 secondi di advertising. Per risparmiare invece tocca rivolgersi alle piccole tv: un commercial di mezzo minuto su Nat Geo adventure, nella fascia oraria 19-24, costa appena 125 euro, e su Rock tv ancora meno: 90 euro.

Insomma, dai listini commerciali delle concessionarie di Rai, Mediaset, La7 e Sky si intuiscono meglio, tradotti in euro sonanti, tanti ragionamenti un po’ fumosi su audience e qualità del target. Nel Tg1 delle ore 20, per esempio, trenta secondi di pubblicità valgono tra i 62 mila e gli 83 mila euro, mentre al Tg2 delle 20,30 i prezzi si dimezzano: dai 23 ai 30 mila euro. PerRai 3, invece, i programmi più preziosi sono Che tempo che fa e Ballarò. Che condividono il listino tra i 62 mila e i 72 mila euro a spot. Più sotto Report (56-66 mila) e Chi l’ha visto (tra i 49 e i 58 mila euro).

Apprezzato il Tg5 delle 20, su Canale 5, con un listino da 68- 90.600 euro a spot. Ci sono poi gli investimenti sicuri di Striscia la notizia (79.500-82.600 euro per trenta secondi di pubblicità) o di Italia’s got talent (83- 100.900 euro). Su Italia 1 Le Iene riescono a spuntare fino a 48 mila euro per spot, mentre su Rete 4 è la serie The Mentalist a essere valutata fino a 21 mila euro a spot, davanti a Quarto Grado (20.600) e Quinta colonna (12.800). Publitalia, peraltro, prevede uno sconto del 10% sulle tariffe dal 1° al 7 settembre.

Cairo Communication non ha ancora pubblicato i listini per l’autunno di La7, e per l’estate offre ilprime time a oltre 33 mila euro, i talk post tg a oltre 50 mila euro, fino ai 7.600 euro a spot all’interno di Omnibus mattina. Va detto, peraltro, che su questi prezzi sono previsti fortissimi sconti: del 20% fi no al 20 luglio, del 40% fino al 3 agosto, del 60% fino al 17 agosto, del 30% fino al 24 agosto, e del 10% fino al 31 agosto.

La concessionaria Sky Pubblicità pubblica ancora le vecchie tariffe, scadute lo scorso 30 marzo. Ma nei listini successivi i prezzi non saranno variati molto. Nella fascia oraria 19-24, quella più preziosa, il canale più costoso è Sky Cinema 1: oltre 13 mila euro per uno spot da trenta secondiFox Crime raggiunge quasi i 10 mila euro a spot, e SkyTg24 quasi i 4 mila.


Esperti del settore assicurano però che la crisi non vale solo per chi compra, e che dalle concessionarie di pubblicità è possibile ottenere sconti che possono arrivare anche al 70-75% della cifra iniziale.
Se comunque non si dispone di un abile negoziatore con un buon portafoglio contatti e si ha un budget piuttosto ristretto, è sempre possibile pianificare spot di 30 secondi ciascuno sulla prestigiosa Sky Arte, al prezzo di soli 580 euro.

martedì 3 settembre 2013

Quando i rottami vanno dal rottamatore. Il rischio? Un partito-discarica


Quando hanno capito che anche cambiando le regole avrebbero perso comunque, i dirigenti del Pd hanno fatto l'unica cosa possibile per non venire travolti dal ciclone Renzi: lo hanno appoggiato.
Con un trasformismo degno di De Petris, Franceschini, Fioroni - persino D'Alema - si sono sperticati nel tessere le lodi del Sindaco di Firenze, uno che fino a qualche anno fa più che il Sindaco, sembrava il Mostro, di Firenze. Tanto per capire la dimensione della giravolta, pubblico qualche dichiarazione degli interessati, pre e post conversione: Franceschini (Maggio 2012):  "'Nel Pd ci sono troppi galli, convinti che il sole sorga solo quando cantano loro. Matteo è un giovane effervescente con delle qualità. Ma non ho capito, francamente, su che linea si candidi a guidare l'Italia, se non su un dato anagrafico di giovinezza tra virgolette. Mi pare un po' pochino.... Per governare serve una personalità che abbia la forza di confrontarsi, al posto di Monti, con la Merkel, con Hollande, con i problemi europei''.
A settembre dello stesso anno continuava sulle stessa linea: "La candidatura di Renzi alle primarie è un fattore di arricchimento, io però voto Bersani perché si tratta di scegliere non il segretario del Pd ma il premier che prenderà il posto di Mario Monti, la figura che che dovrà continuare a convincere le borse e il mercato internazionale''.
Ora: “quando in squadra ci sono dei talenti, i talenti vanno utilizzati. E Matteo è un talento”.
Fioroni (Settembre 2012): "Renzi fa bene il sindaco di Firenze e, secondo me, se lo continua a fare meglio e se aggiusta il traffico cittadino è una buona cosa''
Dopo l'illuminazione: "Conosco Matteo da quando era segretario della Margherita e presidente della provincia, lo ritenevo un giovane di grande valore già allora, e i fatti mi hanno dato ragione". 

Aspettando fiduciosi che gli altri Pd di area Dem si accodino a cotanta prova di coerenza, ci domandiamo se Renzi sia consapevole che coloro i quali ora lo osannano sono proprio quei “rottami” che il Sindaco di Firenze si proponeva di voler seppellire una volta per tutte.  Evviva il riciclo.

domenica 11 agosto 2013

Relazioni pubbliche e Vaticano, il tweet logora chi lo fa


I fondamentali del mestiere di chi si occupa di relazioni pubbliche imporrebbero di conoscere bene i propri strumenti del mestiere. Non si tratta di una richiesta esosa, é un po' come pretendere che Cristiano Ronaldo sia bravo a tirare i calci d'angolo (si badi bene - i calci d'angolo - non le punizioni). 
Detto questo, ha del clamoroso il comportamento di Francesca Chaoqui: trentenne, "astro nascente" delle relazioni pubbliche, ai vertici per anni della società di consulenza Ernst&Young. 
Per gli innegabili meriti, è stata chiamata a far parte della Commissione voluta da Papa Francesco per far luce sulle ombre delle IOR. Peccato che qualche tempo prima avesse espresso giudizi non proprio lusinghieri - attraverso il suo account Twitter - proprio sullo IOR, non lesinando giudizi negativi e sprezzanti sul Cardinal Bertone e l'ex Ministro dell'Economia Giulio Tremonti. 
Risultato? Profilo rimosso ma tweet sempre disponibili sul web poiché la Rete non restituisce nulla all'oblio (questo il concetto da tenere sempre a mente), al contrario di come avviene con certi peccatucci commessi all'ombra del Cupolone. 

giovedì 8 agosto 2013

Bezos-Washington Post, quando le vie del lobbying sono infinite

Guardando all’ultimo acquisto di Bezos, tycoon fondatore di Amazon, mi è venuto spontaneo chiedermi: perché un “nativo digitale”, uno che ha contribuito al superamento tuttora in atto della carta stampata a favore del digitale, torna sui suoi passi e compra il glorioso Washington Post, che sulle sue colonne ha ospitato uno dei più famosi e “romantici” scoop della storia del giornalismo?


Bezos non ha un’esperienza diretta nel giornalismo, ha comprato la testata per una cifra tutto sommato modesta (250 milioni di dollari) e non è attivo in politica. Almeno per ora. 

Nel recente passato ha elargito finanziamenti sia ai democrat per il sostegno ai matrimoni gay che ai conservatori per l’abbassamento della pressione fiscale. Uno stratega trans-oceanico dunque. Da noi un probabile cerchiobottista.

Subito dopo l’acquisto ha scritto ai dipendenti, per tranquillizzarli: “ I valori del Post non dovranno cambiare, continueremo a seguire la verità dovunque porti e lavoreremo sodo per non fare errori".
Il bello è che ora si è scatenato il prossimo toto-acquisto. Chi sarà il prossimo? Birkin&Page “regaleranno” a Google un souvenir cartaceo, o lo farà prima la Apple? O perché no Zuckerberg?
Quello che sembra chiaro, almeno in un primo momento, è che le vie del lobbying non hanno fine. Anche se bistrattati, antichi, costosi, i quotidiani restano ancora oggi il mezzo più potente (oltre alla tv) sul quale si mandano messaggi ai politici, si “guidano” opinioni, si formano critiche. Forse si tratta solo di un esperimento di compenetrazione analogico-digitale fatto da un magnate annoiato che ha voluto provare il brivido di essere un editore e che ha deciso di partire dalle basi per capire i trend futuri.

O forse no, ma solo il futuro orientamento del Post potrà svelare (almeno una parte) della strategia. 

venerdì 2 agosto 2013

L'ultima copia del New York Times? Sarà digitale

Secondo i calcoli di Philip Meyer, studioso dell'editoria americana, l'ultima sgualcita copia su carta del "New York Times" sarà acquistata nel 2043. La crisi di vendite che affligge i quotidiani da una ventina d'anni lascia pensare che la previsione sia realistica, se non addirittura ottimistica. Ma di chi è la colpa (ammesso che un colpevole ci sia?). Editori e giornalisti tendono ad attribuirsela reciprocamente. Ma il vero nemico dei giornali cartacei, quello che li sta inesorabilmente condannando a morte, è la tecnologia. Il tempo a disposizione della gente è diminuito, e ognuno di noi ha ormai la possibilità di essere informato quando vuole, dove vuole e sui temi che preferisce senza dovere per forza ricorrere alla lettura di un giornale. I tempi dunque sembrano essere inconciliabili, se si pensa che per leggere interamente una copia del NYT ci vogliono 24 ore.
In questo quadro catastrofico però, c’è una buona notizia: al New York Times crescono i profitti, proprio grazie al digitale. Gli abbonamenti online del più prestigioso quotidiano mondiale sono cresciuti del 40% nel secondo trimestre 2013, toccando quota 738 mila (699 mila unità per Nyt e International Herald Tribune e 39 mila per Boston Globe). Un risultato che per l'amministratore delegato Mark Thompson "riflette la continua evoluzione delle iniziative digitali, l’attenzione alla gestione dei costi e il moderato calo delle entrate pubblicitarie”.

Tanto buona l’intuizione, che si replica immediatamente anche oltre oceano, nel Vecchio Continente.  Oggi, infatti, debutta la versione online del The Sun a pagamento. Per gli utenti ‘Sun+’, la nuova piattaforma digitale costerà due sterline a settimana. Una rivoluzione, in tutti i sensi. Preludio del declino inesorabile del giornale cartaceo? Troppo presto per dirlo, anche se appare certo già da adesso che – su carta o in digitale – l’informazione (forse quella di migliore qualità) sopravviverà. 

mercoledì 17 luglio 2013

Social network e lavoro, quando la ricerca avviene con il Tweet

Chi l'ha detto che il social network più adatto per chi cerca lavoro è Linkedin? In tempi come questi, tutti le possibilità offerte dalla rete vanno colte al volo. Lo ha capito perfettamente l'utente di Twitter CV in 10 tweet  che si pone l'obiettivo - attraverso i cinguettii - di far conoscere le sue skills ai potenziali datori di lavoro. Una sembra già assodata: la conoscenza e l'uso efficace dei social network...

martedì 25 giugno 2013

Blogger rovinato, Sallusti salvato

Come il più classico degli "horror parlamentari", nascosta tra le pieghe di una proposta di legge depositata da Scelta Civica riguardante modifiche alla legge sulla stampa del 1948, rispunta lei. La norma “ammazza blog”, già proposta nel 2011 dal governo Berlusconi per tentare di arginare la pericolosa eco delle intercettazioni (e loro inopportuna deriva).
Il nuovo decreto, in quanto all’obbligo di rettifica online, dovrebbe prevedere che: “per i siti informatici, ivi compresi i blog, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate entro quarantotto ore dalla richiesta, in testa alla pagina, prima del corpo dell’articolo, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono“.
La pena per chi non rispetterà l’obbligo?Una multa da un minimo di euro 8.000 a un massimo di euro 16.000”.

Una curiosità:  nello stesso decreto si “alleggerisce” il reato di diffamazione a mezzo stampa, cancellando il carcere. Le nuove disposizione prevedono un’ammenda da 5 a 50 mila euro. Morale: blogger rovinato, Sallusti salvato.

giovedì 20 giugno 2013

Afghanistan, una guerra di mistificazione di massa


Intervista a Giorgia Pietropaoli, autrice del libro “Missione Oppio – cronache e retroscena di una guerra persa in partenza”.

La presenza militare in Afghanistan non è sinonimo di guerra, né tantomeno di esportazione della democrazia. È un investimento. Ci sono eserciti, lobby, nazioni intere (Italia compresa) che combattono da anni in quella polveriera che è il Medio Oriente per cercare di accaparrarsi quanto di più prezioso ci sia laggiù: l’oppio.
Ecco perché non è possibile andarsene. Almeno non adesso. Per il 2013 un recente rapporto dell'Unodc (l'Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine) e del ministero afghano Antinarcotici prevede un aumento dei campi coltivati a papavero da oppio in 12 delle 34 province del Paese e coltivazioni anche in “nuove” aree, comprese alcune tra quelle che in passato erano state dichiarate 'poppy-free'. Ma dove va tutto l’oppio prodotto in Afghanistan?  Continua a restare un mistero, non spiegabile solamente con la produzione di eroina.

La produzione di oppio in Afghanistan è in aumento per il terzo anno consecutivo. I funzionari internazionali temono possa trasformarsi in un “narco-stato”. Lo consideri uno scenario possibile?
Credo che l’Afghanistan sia già un narco-stato. L’economia di questo Paese è sostenuta principalmente, oserei dire quasi totalmente, dalla produzione e dal commercio di oppio. Tutti i modelli di sviluppo alternativi, pensati e messi in pratica dalle forze occidentali, sono falliti. Sembra non esserci alcuna reale alternativa: l’oppio rende di più economicamente perciò lo si continua a coltivare. Le quantità prodotte aumentano di anno in anno perché a nessuno interessa veramente mettere un freno alla produzione.

A chi interessa che lo scenario attuale in Afghanistan rimanga questo?
Ovviamente lo scenario in Afghanistan cambierà e si evolverà. È inevitabile. Sul come si evolverà dipende da diversi fattori ma sicuramente le potenze occidentali (Usa, Germania, Gran Bretagna, Italia, tanto per citarne qualcuna) che hanno investito in maniera ingente, in termini economici e militari, in questo Paese, hanno tutto l’interesse a vedere i frutti, anche parziali, di questo investimento. E quando dico potenze occidentali, intendo includere anche i poteri forti e le lobby, che hanno una grande influenza sui sistemi economici e politici di queste nazioni.  Per questo motivo, non appena il piano di ritiro sarà completato, nel 2014, sarà attuato un nuovo piano, il cosiddetto “Resolute Support”, che prevede la permanenza di truppe occidentali con annesse e connesse basi. In sostanza, non cambierà nulla, ci sarà soltanto una riduzione per quanto riguarda le unità militari occidentali presenti sul territorio. Andarsene adesso vorrebbe dire ammettere apertamente la sconfitta e capitalizzare perdite enormi. Nessuno se lo può permettere, perciò si punta ad un investimento di lungo, lunghissimo termine.

Nel libro si parla anche del ruolo di alcune case farmaceutiche, interessate a mantenere lo stato politico afghano attuale.
È difficile capire quali siano le case farmaceutiche che hanno interessi concreti e tangibili in Afghanistan. Questo perché non si riesce a capire che fine fa tutto l’oppio prodotto in Afghanistan, perché non esiste un controllo efficace. Stiamo parlando di tonnellate e tonnellate di oppio, prodotte in maniera illegale ma anche legale, la cui destinazione è spesso ignota. Le case farmaceutiche sono sicuramente coinvolte e recentemente anche un’altra fonte, chiamiamola d’intelligence, me l’ha confermato. D’altronde, sarebbe assurdo il contrario, con tutta quella materia prima in gioco. In questo momento, però, è complicato stabilire in quale misura e soprattutto è complicato avere nomi e cognomi degli attori coinvolti. Nel mio libro c’è un intero capitolo dedicato all’argomento. Brevemente, posso dire che uno dei più grandi colossi farmaceutici mondiali, sta investendo in Afghanistan attraverso il ramo turco. In che maniera, non è dato saperlo.

Secondo te, la cattura di Bin Laden (e relativo “export democratico”), era veramente l'obiettivo principale della permanenza militare in Afghanistan?
Assolutamente no. E questo ormai l’hanno capito anche i bambini. Per catturare Bin Laden sarebbe bastata un’operazione d’intelligence mirata, come quella che abbiamo visto in Pakistan quando è stato ucciso. Non serviva un’azione militare. La verità è che il capo di Al Qaeda è stato solo il casus belli.


La missione di pace della NATO, he aveva promesso risultati concreti in termini di lotta al narcotraffico, è miseramente fallita. Come mai?
In parte ho risposto già prima. Aggiungo che non c’è mai stato un reale interesse, da parte della Nato, alla lotta al narcotraffico. E ciò è dimostrato dal fatto che, con l’invasione Nato, la produzione di oppio è ripartita e raddoppiata, triplicata, nel giro di pochissimo tempo. Nel 2012, erano destinati alla coltivazione d’oppio ben 154.000 ettari di terreno. Nel 2001 erano soltanto 8.000. Non scordiamoci, infatti, che i talebani nei due anni precedenti al 2001 erano riusciti ad abbattere quasi totalmente la coltivazione dei papaveri. Qualcosa non torna: forse alla Nato, in fondo in fondo, non è piaciuto per niente il fatto che la produzione d’oppio fosse diminuita.

Quale scenario futuro vedi più probabile per l'Afghanistan?
L’Afghanistan, secondo me, farà la fine del Kosovo. Un narco-stato sotto tutela internazionale, con un raffinato sistema criminale gestito da diversi signori della droga e da bande che lottano di continuo tra di loro per il controllo del territorio. Ci sarà una sostanziale non-integrazione tra gli afghani e gli occidentali, anche se questi ultimi tenteranno di costruire scuole, ospedali e di rafforzare le istituzioni, gli apparati di governo e quelli di sicurezza. Chissà quanti anni ancora ci vorranno per assistere ad un reale progresso di questo Paese. Sicuramente la mia generazione non assisterà a questo evento. Magari la prossima. O quella dopo ancora.

lunedì 17 giugno 2013

Turbogas, la centrale che piaceva ai governi


L’Italia è spesso tristemente nota come la nazione delle opere incompiute, ma con le dovute eccezioni. Quelle che comprendono interessi estesi, infatti, vengono escluse. È il caso della Turbogas di Aprilia (LT), centrale termica ritenuta dannosa e inutile, ma che alla fine – nonostante una forte e costante opposizione della popolazione locale – è stata realizzata lo stesso. Ma andiamo per ordine.
Cos’è una Turbogas:
Una centrale CCGT è un tipo di centrale termoelettrica che produce energia elettrica utilizzando come materia prima il gas naturale. Una centrale a ciclo combinato con turbina a gas, detta Turbogas, coniuga i punti di forza di due processi termici: la generazione di corrente elettrica mediante una turbina a gas abbinata ad una turbina a vapore.
Le centrali termoelettriche a ciclo combinato, come la turbogas, producono particolato ultrafine (PM 2,5) che non esce dalle ciminiere (per cui i filtri possono pure essere supertecnologici) ma si crea combinandosi con le sostanze chimiche presenti in atmosfera e viaggia per decine di chilometri e non viene bloccato nelle parti alte del nostro sistema respiratorio penetrando fin giù negli alveoli.

Breve storia della Turbogas:
L’iter burocratico della centrale parte dal 9 aprile 2002, data in cui il governo in carica allora attua il decreto “sblocca centrali”, misura per “scongiurare black out” e incentivare produzione di energia da fonti rinnovabili. Un mese dopo l’ex Energia spa, divenuta poi Sorgenia, fa richiesta per l’apertura della centrale turbogas ad Aprilia. In barba alle varie valutazioni di impatto ambientale il 2 ottobre 2006 il ministero dello Sviluppo Economico, (della squadra di governo successiva) concede l’Autorizzazione a costruire.

Il 14 febbraio 2008 il Tar del Lazio accoglie il ricorso presentato dai cittadini di Aprilia, annullando quindi le autorizzazioni del Ministero dell’Ambiente ed il decreto di autorizzazione del Ministero dello Sviluppo. Ma il 19 marzo 2008 un nuovo decreto a firma Ministero dello Sviluppo Economico annulla tutto di nuovo. Rimettendo in gioco la Sorgenia, che può quindi costruire.


La Resistenza cittadina:
Il territorio non accetta di buon grado la costruzione di questo tipo di impianto, non tanto per la sindrome del “Not in my backyard” ma per una serie di ragioni documentate.  Il movimento popolare contro la realizzazione della turbogas prende vita nel 2002, ma è nell’ottobre del 2006 che nasce la Rete cittadini contro la turbogas di Aprilia, che ancora oggi prosegue con mobilitazioni, iniziative popolari e una serrata vertenza legale l’opera di contrasto alla realizzazione e la messa a regime dell’impianto. Gli argomenti alla base dell’opposizione sono sostanzialmente tre.
1. La Turbogas è inutile: nel Lazio si produce il 20% in più dell’energia elettrica che si consuma oggi  e con gli impianti già in funzione sarà così fino al 2020, senza la turbogas di Aprilia.
2. Il peggioramento della qualità dell’aria:una valutazione di impatto ambientale della Giunta Regionale del Lazio (1 Agosto 2003) aveva già inserito Aprilia nella lista dei territori nei quali i valori degli inquinanti sono superiori ai limiti di legge.
3. Pericolosità. In base alla Direttiva Seveso (la norma europea tesa alla prevenzione ed al controllo dei rischi di accadimento di incidenti rilevanti, connessi con determinate sostanze classificate pericolose) quella zona esistono già quattro impianti catalogati come a “rischio di incidente rilevante”: due fabbriche farmaceutiche, una di vernici e la quarta, la più vicina, di pesticidi. Anche secondo uno studio effettuato dall’Università La Sapienza non c’è alcun bisogno di un altro impianto a rischio.
Dello stesso parere il Dipartimento istituzionale della Regione Lazio, che scrive ad Aprile 2008: “Il settore termoelettrico laziale ha attualmente una potenza sufficiente a sostenere i consumi prevedibili al 2020 e non è quindi necessario aumentare la potenza attualmente installata”.


Il presente:

Intanto la Turbogas, a Gennaio, ha compiuto un anno di attività. Oggi è una realtà che impiega 70 persone. C’è chi l’ha accettata, chi ha imparato – suo malgrado – a conviverci, chi ancora la rifiuta e dichiara strenua opposizione. Come spiegano dal comitato  “una valutazione di impatto sanitario non c’è mai stata, quindi neppure un registro tumori”; inoltre attualmente la Turbogas funziona al minimo del suo potenziale non avendo ancora ottenuto il rinnovo per l’AIA. Il 25 giugno ci sarà la seconda conferenza dei servizi presso il Ministero dell’Ambiente: una data – sempre secondo il comitato – non casuale, ma “strategica nella speranza di trovarsi di fronte i nuovi amministratori comunali(ad Aprilia si è recentemente insediato il nuovo sindaco – n.d.r.), ignari di questo argomento e di tutti i suoi risvolti e complicazioni”. Una cosa, per il Comitato, è certa: “Siamo alle battute finali per capire quale futuro è riservato alla popolazione destinata a subire scelte decise dalle lobby energetiche e non condivise da un territorio già gravemente compromesso da tante realtà nocive e di grande impatto ambientale”.

giovedì 13 giugno 2013

I dirigenti Italiani: tre ore di lavoro per uno stipendio medio

A farlo presente (ancora una volta) è l'Economist, ma non si può dire si tratti di uno scoop. I dirigenti italiani guadagnano bene, e lo sapevamo. Il quotidiano inglese però ha realizzato uno studio (tabella a lato) che calcola quanti giorni di lavoro occorrono ad un dipendente con un salario medio per guadagnare come il proprio capo. La notizia è che ad un dipendente occorrono circa 10 giorni per guadagnare quello che il manager mette in tasca in un'ora.
Peggio di noi Romania, Spagna e Paesi dell'ex-URSS; Islanda, Svizzera e Norvegia le nazioni più "eque".
Le considerazioni le affido ad una celebre frase di Adriano Olivetti, ritratto di imprenditore illuminato ormai scomparso: "Nessun dirigente, neanche il più alto, deve guadagnare più di dieci volte l'ammontare del salario minino"

Per leggere l'articolo integrale dell'Economist clicca qui 

venerdì 31 maggio 2013

Intervista a Paolo Berizzi, autore del reportage che segue le rotte della coca attraverso le vite dei suoi schiavi
Un cocalero, uno dei tanti che vivono in Sud America, deve raccogliere dai 300 ai 500 chili di foglie di coca per produrre – dopo averle sminuzzate, trattate con acqua, benzina e calce – un chilo di cocaina grezza. Quel chilo, che in Colombia si acquista con circa 3 mila euro, a Milano ne vale 225mila. Il lavoro del cocalero invece, che è fatto di fatica, rischi di agguati da parte dell’esercito o di guerriglieri, rende 15 milioni di pesos l’anno, circa 6500 euro. Fanno 553 euro al mese, 17 euro al giorno. Con questi deve vivere tutta la sua famiglia. Per lui coltivare banane o caffè, invece della coca, sarebbe lo stesso. Ma di banane non si vive. E così, insieme ad un esercito di altri cocaleros, costituisce l’ingranaggio di base dell’enorme macchina di morte del commercio mondiale di cocaina, un business enorme che lascia ai contadini solo le briciole, e riserva a narcos e organizzazioni criminali (tra cui le italiane camorra e mafia, ma soprattutto ‘ndrangheta), le fette più grandi di una torta per cui ogni anno si uccidono migliaia di persone.
Parte dal cuore della foresta Amazzonica l’inchiesta di Paolo Berizzi e Antonello Zappadu racchiusa nel libro “La Bamba”, un viaggio sulle tappe che percorre un grammo di coca dalla sua culla – il Sud America – fino a Milano, una città che “con i suoi 125mila consumatori occasionali e 25mila abituali, con le sue 10mila dosi quotidiane che diventano 15mila nel fine settimana”, si è guadagnata l’appellativo di “Coca City”.
L’inchiesta di Berizzi è il frutto di anni circa tre anni di lavoro, ricerche ed impegno sul campo. L’autore – inviato de La Repubblica e già autore di altri libri inchiesta come “Bande Nere” (2009) e “Morte a 3 euro” (2008) – ha saputo raccontare in maniera nitida e scevra da pregiudizi le esistenze di coloro i quali vivono di coca a tutti i livelli della sua filiera produttiva; partendo da chi sminuzza foglie in una baracca nella foresta arrivando fino a chi sniffa polvere bianca in uno dei tanti privè del capoluogo lombardo. Raccontando tutto quello che c’è nel mezzo.
Discutendone con Paolo Berizzi, abbiamo avuto la possibilità di andare più a fondo nelle pieghe di un reportage che apre gli occhi su una realtà spesso sconosciuta, sulle rotte di quella che ormai è diventata “la droga per eccellenza”.
Perché un’inchiesta su questo argomento?
Perché è di strettissima attualità, e la coca – purtroppo – fa sempre più parte del nostro quotidiano. Anche il consumo in questi anni si è trasformato, diventando non solo più ampio, ma anche più trasversale. La coca non è più la “droga di elite” degli anni passati ed è ormai dappertutto, essendo totalmente sfuggita alla forze dell’ordine. E se, da un lato, è cambiato il tipo di consumatore, dall’altro stanno cambiando anche i profili di chi la spaccia: a Milano ad esempio, a differenza di Napoli, non esistono “fortini” dello spaccio, e chi la vende può essere chiunque: un collega, un ingegnere, il tuo capo….
Ero stanco di leggere saggi sulla coca pieni di numeri, volevo raccontarla in presa diretta, con il supporto della fotografia: immortalare il viaggio della coca, dalle foreste sudamericane a Milano, raccontando le esistenze di chi vive di cocaina. Da chi la coltiva a chi la raccoglie, da chi la trasporta a chi la consuma”.
Quali le difficoltà maggiori incontrate nel viaggio?
Le difficoltà sono state moltissime, e lo avevamo messo in conto. Alcuni luoghi restano inviolabili. È andato tutto bene grazie ai buoni contatti di Antonello, che vive in Colombia, ma avevamo preventivato che qualcosa si potesse inceppare, in qualsiasi momento. Fortunatamente non è stato così.
Si può dire che la guerra alla coca sia una guerra persa?
Se guardiamo in dati, ci rendiamo conto che il Plan Colombia, voluto da Clinton nel 1999, ha fallito. Si era posto l’obiettivo di ridurre del 50% la produzione di coca, il risultato è stato un aumento del 27% delle coltivazioni. Il motivo è semplice: non è stata data nessuna alternativa ai campesinos che producono coca. Sono stati messi nella condizione di non poter scegliere. Pur non rendendoli ricchi come i trafficanti, la produzione di foglie di coca consente ai contadini di vivere, cosa non possibile se coltivassero banane o caffè.
Alla luce di quello che hai visto e documentato, quali potrebbero essere gli scenari futuri del commercio di cocaina?
Se non si cambia il tipo di strategia e di guerra alla coca, si assisterà ad una diffusione ancora più massiccia della sostanza. Oltre ai mercati tradizionali se ne aggiungerebbero altri: penso alle nazioni Scandinave, ad esempio, o ai Paesi asiatici – Giappone e Cina – finora ai margini del commercio e che rappresentano piazze miliardarie e appetibili per i narcos, che sono sempre più organizzati. In questo scenario tragico poi, non dobbiamo dimenticare una cosa: anche se il consumo di eroina è in calo, la produzione non è interessata invece da alcuna flessione. Ci sono infatti montagne di eroina in Afghanistan e negli altri Paesi produttori del Medio Oriente, che non aspettano altro che la domanda torni alta.