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giovedì 20 giugno 2013

Afghanistan, una guerra di mistificazione di massa


Intervista a Giorgia Pietropaoli, autrice del libro “Missione Oppio – cronache e retroscena di una guerra persa in partenza”.

La presenza militare in Afghanistan non è sinonimo di guerra, né tantomeno di esportazione della democrazia. È un investimento. Ci sono eserciti, lobby, nazioni intere (Italia compresa) che combattono da anni in quella polveriera che è il Medio Oriente per cercare di accaparrarsi quanto di più prezioso ci sia laggiù: l’oppio.
Ecco perché non è possibile andarsene. Almeno non adesso. Per il 2013 un recente rapporto dell'Unodc (l'Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine) e del ministero afghano Antinarcotici prevede un aumento dei campi coltivati a papavero da oppio in 12 delle 34 province del Paese e coltivazioni anche in “nuove” aree, comprese alcune tra quelle che in passato erano state dichiarate 'poppy-free'. Ma dove va tutto l’oppio prodotto in Afghanistan?  Continua a restare un mistero, non spiegabile solamente con la produzione di eroina.

La produzione di oppio in Afghanistan è in aumento per il terzo anno consecutivo. I funzionari internazionali temono possa trasformarsi in un “narco-stato”. Lo consideri uno scenario possibile?
Credo che l’Afghanistan sia già un narco-stato. L’economia di questo Paese è sostenuta principalmente, oserei dire quasi totalmente, dalla produzione e dal commercio di oppio. Tutti i modelli di sviluppo alternativi, pensati e messi in pratica dalle forze occidentali, sono falliti. Sembra non esserci alcuna reale alternativa: l’oppio rende di più economicamente perciò lo si continua a coltivare. Le quantità prodotte aumentano di anno in anno perché a nessuno interessa veramente mettere un freno alla produzione.

A chi interessa che lo scenario attuale in Afghanistan rimanga questo?
Ovviamente lo scenario in Afghanistan cambierà e si evolverà. È inevitabile. Sul come si evolverà dipende da diversi fattori ma sicuramente le potenze occidentali (Usa, Germania, Gran Bretagna, Italia, tanto per citarne qualcuna) che hanno investito in maniera ingente, in termini economici e militari, in questo Paese, hanno tutto l’interesse a vedere i frutti, anche parziali, di questo investimento. E quando dico potenze occidentali, intendo includere anche i poteri forti e le lobby, che hanno una grande influenza sui sistemi economici e politici di queste nazioni.  Per questo motivo, non appena il piano di ritiro sarà completato, nel 2014, sarà attuato un nuovo piano, il cosiddetto “Resolute Support”, che prevede la permanenza di truppe occidentali con annesse e connesse basi. In sostanza, non cambierà nulla, ci sarà soltanto una riduzione per quanto riguarda le unità militari occidentali presenti sul territorio. Andarsene adesso vorrebbe dire ammettere apertamente la sconfitta e capitalizzare perdite enormi. Nessuno se lo può permettere, perciò si punta ad un investimento di lungo, lunghissimo termine.

Nel libro si parla anche del ruolo di alcune case farmaceutiche, interessate a mantenere lo stato politico afghano attuale.
È difficile capire quali siano le case farmaceutiche che hanno interessi concreti e tangibili in Afghanistan. Questo perché non si riesce a capire che fine fa tutto l’oppio prodotto in Afghanistan, perché non esiste un controllo efficace. Stiamo parlando di tonnellate e tonnellate di oppio, prodotte in maniera illegale ma anche legale, la cui destinazione è spesso ignota. Le case farmaceutiche sono sicuramente coinvolte e recentemente anche un’altra fonte, chiamiamola d’intelligence, me l’ha confermato. D’altronde, sarebbe assurdo il contrario, con tutta quella materia prima in gioco. In questo momento, però, è complicato stabilire in quale misura e soprattutto è complicato avere nomi e cognomi degli attori coinvolti. Nel mio libro c’è un intero capitolo dedicato all’argomento. Brevemente, posso dire che uno dei più grandi colossi farmaceutici mondiali, sta investendo in Afghanistan attraverso il ramo turco. In che maniera, non è dato saperlo.

Secondo te, la cattura di Bin Laden (e relativo “export democratico”), era veramente l'obiettivo principale della permanenza militare in Afghanistan?
Assolutamente no. E questo ormai l’hanno capito anche i bambini. Per catturare Bin Laden sarebbe bastata un’operazione d’intelligence mirata, come quella che abbiamo visto in Pakistan quando è stato ucciso. Non serviva un’azione militare. La verità è che il capo di Al Qaeda è stato solo il casus belli.


La missione di pace della NATO, he aveva promesso risultati concreti in termini di lotta al narcotraffico, è miseramente fallita. Come mai?
In parte ho risposto già prima. Aggiungo che non c’è mai stato un reale interesse, da parte della Nato, alla lotta al narcotraffico. E ciò è dimostrato dal fatto che, con l’invasione Nato, la produzione di oppio è ripartita e raddoppiata, triplicata, nel giro di pochissimo tempo. Nel 2012, erano destinati alla coltivazione d’oppio ben 154.000 ettari di terreno. Nel 2001 erano soltanto 8.000. Non scordiamoci, infatti, che i talebani nei due anni precedenti al 2001 erano riusciti ad abbattere quasi totalmente la coltivazione dei papaveri. Qualcosa non torna: forse alla Nato, in fondo in fondo, non è piaciuto per niente il fatto che la produzione d’oppio fosse diminuita.

Quale scenario futuro vedi più probabile per l'Afghanistan?
L’Afghanistan, secondo me, farà la fine del Kosovo. Un narco-stato sotto tutela internazionale, con un raffinato sistema criminale gestito da diversi signori della droga e da bande che lottano di continuo tra di loro per il controllo del territorio. Ci sarà una sostanziale non-integrazione tra gli afghani e gli occidentali, anche se questi ultimi tenteranno di costruire scuole, ospedali e di rafforzare le istituzioni, gli apparati di governo e quelli di sicurezza. Chissà quanti anni ancora ci vorranno per assistere ad un reale progresso di questo Paese. Sicuramente la mia generazione non assisterà a questo evento. Magari la prossima. O quella dopo ancora.