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mercoledì 15 ottobre 2014

Le bufale al tempo di internet: conviene produrle o smascherarle?

“Gengis Khan ha dormito con così tante donne che oggi 1 persona su 200 è suo parente”;  “Mike Tyson è stato arrestato 38 volte da quando ha compiuto i 13 anni”; “Il Megalodon non si è mai estinto e nuota ancora negli oceani”.

Queste sono solo alcune di una serie di notizie che è difficile stabilire se siano vere o clamorose “bufale”; di certo c’è una sola cosa: che fanno il giro del web e compaiono nelle bacheche e negli account di milioni di profili social, salvo poi essere smentite qualche giorno dopo. Ormai internet sembra essere diventato il terreno adatto dove coltivare, spesso ad arte, notizie false (gattini che ereditano ville all’Olgiata e patrimoni da capogiro, popstar planetarie in punto di morte, ecc), e il confine tra notizia curiosa (ma vera) e bufala clamorosa sembra essere diventato sempre più labile.
C’è chi, intorno alle “bufale” ha costruito una professione: lui è Kris Sanchez, ventitreenne di New York, che “fattura” 560.000 Euro all’anno twittando ai suoi circa 7 milioni di followers 60-70 news al giorno di dubbia provenienza. Il metodo di guadagno? Semplice: ai tweet, ogni tanto, viene aggiunto il link di uno sponsor, che gli frutta da 1 a 3 cent per ogni click.

Dal lato opposto, però, c’è chi si sta organizzando proprio in senso contrario: è un programma che vuole “smascherare” le bufale che circolano in Rete e, in particolare, su Twitter. Si chiama Pheme, ed è finanziato dall’Unione Europea. Il progetto è stato ispirato dal lavoro del professor Rob Procter dell’Università di Warwick che esaminò il boom di messaggi su Twitter dopo i “riot”, esplosi a seguito dell’uccisione da parte della polizia di un giovane di colore, a Londra, nel 2011.


Il programma, che vuole “stanare” le bugie su Twitter, classifica i ‘rumor’ online in quattro categorie: speculazione, controversia, informazione sbagliata e disinformazione. Una sorta di macchina della verità online diversa dal fact-checking, che è un’attività ‘cooperativa’ realizzata da persone che spulciando dati e informazioni possono certificare insieme una determinata notizia. Pheme mette in fila anche le fonti per valutare lo loro autorevolezza: esperti, giornalisti, testimoni oculari, cittadini comuni. Il software esamina il background della fonte e la sua storia (i post pubblicati in passato) per individuare gli account Twitter creati esclusivamente per diffondere false informazioni. Incrociando questi dati Pheme rimanda il risultato ad un programma visuale (dashboard) per capire anche l’andamento delle conversazioni su una determinata notizia. Chi avrà la meglio? Per ora, sul nobile intento di Pheme, sembrano avere la meglio le "curiosità" di Mr. Sanchez. Almeno vedendo quello che circola in Rete.