I perché sono ben spiegati da un post di Cas Mudde su opendemocracy
e possono essere riassunti così:
1) NON SIAMO CHARLIE perché la testata da sempre pone la
lente satirica su tutte le religioni,
tutte le razze, tutte le classi politiche. Questo, di conseguenza, li ha portati ad
essere criticati da tutti. Ed essere attaccati da tutti - a molti, se non a tutti – non piace.
2) NON SIAMO CHARLIE perché troppo spesso siamo convinti che
il dibattito – e la satira – debbano essere “civili” e, di conseguenza, non
infastidire troppo. Ma cos’è che infastidisce? E chi può comprendere l’impalpabile
grado di fastidio tra un vignetta satirica sulla propria religione e un tifoso
per uno sfottò sulla sua squadra del cuore?
3) Molte persone NON SONO CHARLIE perché devono fare i conti
con la paura. Stephane Charbonnier, il direttore di Charlie Hebdo rimasto
ucciso ieri nell’attentato, ha dichiarato: “Preferisco
morire in piedi che vivere in ginocchio”. Quanti altri giornalisti,
reporter, professionisti dell’informazione potrebbero dire lo stesso, oggi, e
vivere di conseguenza?
La lista, ovviamente, potrebbe essere molto più lunga, com’è
altrettanto ovvio che questo post non vuole essere una critica alla solidarietà
espressa, ma solo una riflessione sulle parole scelte per esprimerla. Va presa,
forse, come un’incitazione. Perché NON SIAMO CHARLIE, ma dovremmo esserlo (anche solo un po' di più)
.