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giovedì 8 gennaio 2015

Siamo o non siamo Charlie?


Sin dalle prime ore successive al tragico attentato al giornale satirico parigino, la Rete prima – e i giornali poi – hanno espresso solidarietà e sostegno al grido di “Siamo tutti Charlie”. Ma lo siamo davvero? No, probabilmente.

I perché sono ben spiegati da un post di Cas Mudde su opendemocracy e possono essere riassunti così:


1) NON SIAMO CHARLIE perché la testata da sempre pone la lente satirica su tutte le religioni, tutte le razze, tutte le classi politiche. Questo, di conseguenza, li ha portati ad essere criticati da tutti. Ed essere attaccati da tutti  - a molti, se non a tutti – non piace.

2) NON SIAMO CHARLIE perché troppo spesso siamo convinti che il dibattito – e la satira – debbano essere “civili” e, di conseguenza, non infastidire troppo. Ma cos’è che infastidisce? E chi può comprendere l’impalpabile grado di fastidio tra un vignetta satirica sulla propria religione e un tifoso per uno sfottò sulla sua squadra del cuore?

3) Molte persone NON SONO CHARLIE perché devono fare i conti con la paura. Stephane Charbonnier, il direttore di Charlie Hebdo rimasto ucciso ieri nell’attentato, ha dichiarato: “Preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio”. Quanti altri giornalisti, reporter, professionisti dell’informazione potrebbero dire lo stesso, oggi, e vivere di conseguenza?


La lista, ovviamente, potrebbe essere molto più lunga, com’è altrettanto ovvio che questo post non vuole essere una critica alla solidarietà espressa, ma solo una riflessione sulle parole scelte per esprimerla. Va presa, forse, come un’incitazione. Perché NON SIAMO CHARLIE, ma dovremmo esserlo (anche solo un po' di più)
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