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martedì 25 giugno 2013

Blogger rovinato, Sallusti salvato

Come il più classico degli "horror parlamentari", nascosta tra le pieghe di una proposta di legge depositata da Scelta Civica riguardante modifiche alla legge sulla stampa del 1948, rispunta lei. La norma “ammazza blog”, già proposta nel 2011 dal governo Berlusconi per tentare di arginare la pericolosa eco delle intercettazioni (e loro inopportuna deriva).
Il nuovo decreto, in quanto all’obbligo di rettifica online, dovrebbe prevedere che: “per i siti informatici, ivi compresi i blog, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate entro quarantotto ore dalla richiesta, in testa alla pagina, prima del corpo dell’articolo, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono“.
La pena per chi non rispetterà l’obbligo?Una multa da un minimo di euro 8.000 a un massimo di euro 16.000”.

Una curiosità:  nello stesso decreto si “alleggerisce” il reato di diffamazione a mezzo stampa, cancellando il carcere. Le nuove disposizione prevedono un’ammenda da 5 a 50 mila euro. Morale: blogger rovinato, Sallusti salvato.

giovedì 20 giugno 2013

Afghanistan, una guerra di mistificazione di massa


Intervista a Giorgia Pietropaoli, autrice del libro “Missione Oppio – cronache e retroscena di una guerra persa in partenza”.

La presenza militare in Afghanistan non è sinonimo di guerra, né tantomeno di esportazione della democrazia. È un investimento. Ci sono eserciti, lobby, nazioni intere (Italia compresa) che combattono da anni in quella polveriera che è il Medio Oriente per cercare di accaparrarsi quanto di più prezioso ci sia laggiù: l’oppio.
Ecco perché non è possibile andarsene. Almeno non adesso. Per il 2013 un recente rapporto dell'Unodc (l'Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine) e del ministero afghano Antinarcotici prevede un aumento dei campi coltivati a papavero da oppio in 12 delle 34 province del Paese e coltivazioni anche in “nuove” aree, comprese alcune tra quelle che in passato erano state dichiarate 'poppy-free'. Ma dove va tutto l’oppio prodotto in Afghanistan?  Continua a restare un mistero, non spiegabile solamente con la produzione di eroina.

La produzione di oppio in Afghanistan è in aumento per il terzo anno consecutivo. I funzionari internazionali temono possa trasformarsi in un “narco-stato”. Lo consideri uno scenario possibile?
Credo che l’Afghanistan sia già un narco-stato. L’economia di questo Paese è sostenuta principalmente, oserei dire quasi totalmente, dalla produzione e dal commercio di oppio. Tutti i modelli di sviluppo alternativi, pensati e messi in pratica dalle forze occidentali, sono falliti. Sembra non esserci alcuna reale alternativa: l’oppio rende di più economicamente perciò lo si continua a coltivare. Le quantità prodotte aumentano di anno in anno perché a nessuno interessa veramente mettere un freno alla produzione.

A chi interessa che lo scenario attuale in Afghanistan rimanga questo?
Ovviamente lo scenario in Afghanistan cambierà e si evolverà. È inevitabile. Sul come si evolverà dipende da diversi fattori ma sicuramente le potenze occidentali (Usa, Germania, Gran Bretagna, Italia, tanto per citarne qualcuna) che hanno investito in maniera ingente, in termini economici e militari, in questo Paese, hanno tutto l’interesse a vedere i frutti, anche parziali, di questo investimento. E quando dico potenze occidentali, intendo includere anche i poteri forti e le lobby, che hanno una grande influenza sui sistemi economici e politici di queste nazioni.  Per questo motivo, non appena il piano di ritiro sarà completato, nel 2014, sarà attuato un nuovo piano, il cosiddetto “Resolute Support”, che prevede la permanenza di truppe occidentali con annesse e connesse basi. In sostanza, non cambierà nulla, ci sarà soltanto una riduzione per quanto riguarda le unità militari occidentali presenti sul territorio. Andarsene adesso vorrebbe dire ammettere apertamente la sconfitta e capitalizzare perdite enormi. Nessuno se lo può permettere, perciò si punta ad un investimento di lungo, lunghissimo termine.

Nel libro si parla anche del ruolo di alcune case farmaceutiche, interessate a mantenere lo stato politico afghano attuale.
È difficile capire quali siano le case farmaceutiche che hanno interessi concreti e tangibili in Afghanistan. Questo perché non si riesce a capire che fine fa tutto l’oppio prodotto in Afghanistan, perché non esiste un controllo efficace. Stiamo parlando di tonnellate e tonnellate di oppio, prodotte in maniera illegale ma anche legale, la cui destinazione è spesso ignota. Le case farmaceutiche sono sicuramente coinvolte e recentemente anche un’altra fonte, chiamiamola d’intelligence, me l’ha confermato. D’altronde, sarebbe assurdo il contrario, con tutta quella materia prima in gioco. In questo momento, però, è complicato stabilire in quale misura e soprattutto è complicato avere nomi e cognomi degli attori coinvolti. Nel mio libro c’è un intero capitolo dedicato all’argomento. Brevemente, posso dire che uno dei più grandi colossi farmaceutici mondiali, sta investendo in Afghanistan attraverso il ramo turco. In che maniera, non è dato saperlo.

Secondo te, la cattura di Bin Laden (e relativo “export democratico”), era veramente l'obiettivo principale della permanenza militare in Afghanistan?
Assolutamente no. E questo ormai l’hanno capito anche i bambini. Per catturare Bin Laden sarebbe bastata un’operazione d’intelligence mirata, come quella che abbiamo visto in Pakistan quando è stato ucciso. Non serviva un’azione militare. La verità è che il capo di Al Qaeda è stato solo il casus belli.


La missione di pace della NATO, he aveva promesso risultati concreti in termini di lotta al narcotraffico, è miseramente fallita. Come mai?
In parte ho risposto già prima. Aggiungo che non c’è mai stato un reale interesse, da parte della Nato, alla lotta al narcotraffico. E ciò è dimostrato dal fatto che, con l’invasione Nato, la produzione di oppio è ripartita e raddoppiata, triplicata, nel giro di pochissimo tempo. Nel 2012, erano destinati alla coltivazione d’oppio ben 154.000 ettari di terreno. Nel 2001 erano soltanto 8.000. Non scordiamoci, infatti, che i talebani nei due anni precedenti al 2001 erano riusciti ad abbattere quasi totalmente la coltivazione dei papaveri. Qualcosa non torna: forse alla Nato, in fondo in fondo, non è piaciuto per niente il fatto che la produzione d’oppio fosse diminuita.

Quale scenario futuro vedi più probabile per l'Afghanistan?
L’Afghanistan, secondo me, farà la fine del Kosovo. Un narco-stato sotto tutela internazionale, con un raffinato sistema criminale gestito da diversi signori della droga e da bande che lottano di continuo tra di loro per il controllo del territorio. Ci sarà una sostanziale non-integrazione tra gli afghani e gli occidentali, anche se questi ultimi tenteranno di costruire scuole, ospedali e di rafforzare le istituzioni, gli apparati di governo e quelli di sicurezza. Chissà quanti anni ancora ci vorranno per assistere ad un reale progresso di questo Paese. Sicuramente la mia generazione non assisterà a questo evento. Magari la prossima. O quella dopo ancora.

lunedì 17 giugno 2013

Turbogas, la centrale che piaceva ai governi


L’Italia è spesso tristemente nota come la nazione delle opere incompiute, ma con le dovute eccezioni. Quelle che comprendono interessi estesi, infatti, vengono escluse. È il caso della Turbogas di Aprilia (LT), centrale termica ritenuta dannosa e inutile, ma che alla fine – nonostante una forte e costante opposizione della popolazione locale – è stata realizzata lo stesso. Ma andiamo per ordine.
Cos’è una Turbogas:
Una centrale CCGT è un tipo di centrale termoelettrica che produce energia elettrica utilizzando come materia prima il gas naturale. Una centrale a ciclo combinato con turbina a gas, detta Turbogas, coniuga i punti di forza di due processi termici: la generazione di corrente elettrica mediante una turbina a gas abbinata ad una turbina a vapore.
Le centrali termoelettriche a ciclo combinato, come la turbogas, producono particolato ultrafine (PM 2,5) che non esce dalle ciminiere (per cui i filtri possono pure essere supertecnologici) ma si crea combinandosi con le sostanze chimiche presenti in atmosfera e viaggia per decine di chilometri e non viene bloccato nelle parti alte del nostro sistema respiratorio penetrando fin giù negli alveoli.

Breve storia della Turbogas:
L’iter burocratico della centrale parte dal 9 aprile 2002, data in cui il governo in carica allora attua il decreto “sblocca centrali”, misura per “scongiurare black out” e incentivare produzione di energia da fonti rinnovabili. Un mese dopo l’ex Energia spa, divenuta poi Sorgenia, fa richiesta per l’apertura della centrale turbogas ad Aprilia. In barba alle varie valutazioni di impatto ambientale il 2 ottobre 2006 il ministero dello Sviluppo Economico, (della squadra di governo successiva) concede l’Autorizzazione a costruire.

Il 14 febbraio 2008 il Tar del Lazio accoglie il ricorso presentato dai cittadini di Aprilia, annullando quindi le autorizzazioni del Ministero dell’Ambiente ed il decreto di autorizzazione del Ministero dello Sviluppo. Ma il 19 marzo 2008 un nuovo decreto a firma Ministero dello Sviluppo Economico annulla tutto di nuovo. Rimettendo in gioco la Sorgenia, che può quindi costruire.


La Resistenza cittadina:
Il territorio non accetta di buon grado la costruzione di questo tipo di impianto, non tanto per la sindrome del “Not in my backyard” ma per una serie di ragioni documentate.  Il movimento popolare contro la realizzazione della turbogas prende vita nel 2002, ma è nell’ottobre del 2006 che nasce la Rete cittadini contro la turbogas di Aprilia, che ancora oggi prosegue con mobilitazioni, iniziative popolari e una serrata vertenza legale l’opera di contrasto alla realizzazione e la messa a regime dell’impianto. Gli argomenti alla base dell’opposizione sono sostanzialmente tre.
1. La Turbogas è inutile: nel Lazio si produce il 20% in più dell’energia elettrica che si consuma oggi  e con gli impianti già in funzione sarà così fino al 2020, senza la turbogas di Aprilia.
2. Il peggioramento della qualità dell’aria:una valutazione di impatto ambientale della Giunta Regionale del Lazio (1 Agosto 2003) aveva già inserito Aprilia nella lista dei territori nei quali i valori degli inquinanti sono superiori ai limiti di legge.
3. Pericolosità. In base alla Direttiva Seveso (la norma europea tesa alla prevenzione ed al controllo dei rischi di accadimento di incidenti rilevanti, connessi con determinate sostanze classificate pericolose) quella zona esistono già quattro impianti catalogati come a “rischio di incidente rilevante”: due fabbriche farmaceutiche, una di vernici e la quarta, la più vicina, di pesticidi. Anche secondo uno studio effettuato dall’Università La Sapienza non c’è alcun bisogno di un altro impianto a rischio.
Dello stesso parere il Dipartimento istituzionale della Regione Lazio, che scrive ad Aprile 2008: “Il settore termoelettrico laziale ha attualmente una potenza sufficiente a sostenere i consumi prevedibili al 2020 e non è quindi necessario aumentare la potenza attualmente installata”.


Il presente:

Intanto la Turbogas, a Gennaio, ha compiuto un anno di attività. Oggi è una realtà che impiega 70 persone. C’è chi l’ha accettata, chi ha imparato – suo malgrado – a conviverci, chi ancora la rifiuta e dichiara strenua opposizione. Come spiegano dal comitato  “una valutazione di impatto sanitario non c’è mai stata, quindi neppure un registro tumori”; inoltre attualmente la Turbogas funziona al minimo del suo potenziale non avendo ancora ottenuto il rinnovo per l’AIA. Il 25 giugno ci sarà la seconda conferenza dei servizi presso il Ministero dell’Ambiente: una data – sempre secondo il comitato – non casuale, ma “strategica nella speranza di trovarsi di fronte i nuovi amministratori comunali(ad Aprilia si è recentemente insediato il nuovo sindaco – n.d.r.), ignari di questo argomento e di tutti i suoi risvolti e complicazioni”. Una cosa, per il Comitato, è certa: “Siamo alle battute finali per capire quale futuro è riservato alla popolazione destinata a subire scelte decise dalle lobby energetiche e non condivise da un territorio già gravemente compromesso da tante realtà nocive e di grande impatto ambientale”.

giovedì 13 giugno 2013

I dirigenti Italiani: tre ore di lavoro per uno stipendio medio

A farlo presente (ancora una volta) è l'Economist, ma non si può dire si tratti di uno scoop. I dirigenti italiani guadagnano bene, e lo sapevamo. Il quotidiano inglese però ha realizzato uno studio (tabella a lato) che calcola quanti giorni di lavoro occorrono ad un dipendente con un salario medio per guadagnare come il proprio capo. La notizia è che ad un dipendente occorrono circa 10 giorni per guadagnare quello che il manager mette in tasca in un'ora.
Peggio di noi Romania, Spagna e Paesi dell'ex-URSS; Islanda, Svizzera e Norvegia le nazioni più "eque".
Le considerazioni le affido ad una celebre frase di Adriano Olivetti, ritratto di imprenditore illuminato ormai scomparso: "Nessun dirigente, neanche il più alto, deve guadagnare più di dieci volte l'ammontare del salario minino"

Per leggere l'articolo integrale dell'Economist clicca qui