
Guardando all’ultimo acquisto di Bezos, tycoon fondatore di
Amazon, mi è venuto spontaneo chiedermi: perché un “nativo digitale”, uno che
ha contribuito al superamento tuttora in atto della carta stampata a favore del
digitale, torna sui suoi passi e compra il glorioso Washington Post, che sulle
sue colonne ha ospitato uno dei più famosi e “romantici” scoop della storia del
giornalismo?
Bezos non ha un’esperienza diretta nel giornalismo, ha
comprato la testata per una cifra tutto sommato modesta (250 milioni di
dollari) e non è attivo in politica. Almeno per ora.
Nel recente passato ha elargito finanziamenti sia ai
democrat per il sostegno ai matrimoni gay che ai conservatori per l’abbassamento
della pressione fiscale. Uno stratega trans-oceanico dunque. Da noi un
probabile cerchiobottista.
Subito dopo l’acquisto ha scritto ai dipendenti, per
tranquillizzarli: “ I valori del Post non dovranno cambiare,
continueremo a seguire la verità dovunque porti e lavoreremo sodo per non fare
errori".
Il bello è che ora si è scatenato il prossimo toto-acquisto.
Chi sarà il prossimo? Birkin&Page “regaleranno” a Google un souvenir cartaceo,
o lo farà prima la Apple? O perché no Zuckerberg?
Quello che sembra chiaro, almeno in un primo momento, è che
le vie del lobbying non hanno fine. Anche se bistrattati, antichi, costosi, i
quotidiani restano ancora oggi il mezzo più potente (oltre alla tv) sul quale
si mandano messaggi ai politici, si “guidano” opinioni, si formano critiche.
Forse si tratta solo di un esperimento di compenetrazione analogico-digitale
fatto da un magnate annoiato che ha voluto provare il brivido di essere un editore
e che ha deciso di partire dalle basi per capire i trend futuri.
O forse no, ma solo il futuro orientamento del Post potrà
svelare (almeno una parte) della strategia.